E' la prima volta che mi capita di postare un racconto ( mini racconto? parte di un racconto? ) sul Blog, perché non ne ho mai sentito il bisogno. Nemmeno ora, a dirla tutta, ma mi annoio e non ho di meglio da fare. Quindi posto qualcosa di molto, molto, personale. E molto, ma molto, vecchio.
Ci sto quasi ripensando, no, non ci ripenserò.
Tanto nella mia cartellina prende la muffa, quindi meglio così.
E poi nessuno commenta mai una fava nei disegni, perché mai dovrebbero esserci commenti sotto un racconto?
Uhmf. Ottimo modo per convincermi a farlo.
Questi quattro pezzi sono un piccolo estratto di una roba lunghissima, che se dovessi riprendere in mano oggi la rifarei da zero. Cosa che non farò, quindi me la farò - e ve la farete - andar bene così.
E buona domenica a tutti.
Uhmf. Ottimo modo per convincermi a farlo.
Questi quattro pezzi sono un piccolo estratto di una roba lunghissima, che se dovessi riprendere in mano oggi la rifarei da zero. Cosa che non farò, quindi me la farò - e ve la farete - andar bene così.
E buona domenica a tutti.
.Innocenza
Mantenevo
il ritmo, leggero e costante. Premevo e lasciavo, affondavo e
aspettavo, il silenzio della sala era interrotto solo dai miei
ansimi. Sotto di me Lei, forse in attesa di qualcosa da parte mia o
forse altro perché quello che stavo facendo non era abbastanza.
Eppure la forza che stavo mettendo in quella danza era troppa, fino a
quando i muscoli delle braccia non iniziarono a farmi male, i tendini
tesi, i primi avvisi dei crampi alle dita.
“ Basta
così, Leo! ”
Strinsi i
denti, senza ascoltarla, continuando. Ancora e ancora, fino a farmi
del male fisico. Un rumore secco, di un osso che si rompeva sotto le
mie mani, e un urlo perentorio che mi intimava di fermarmi “ Ho
detto basta, per Dio! ”.
Qualcuno
mi prese malamente, spostandomi da sopra la barella, facendomi cadere a terra sul
pavimento piastrellato di bianco. Presi una bella botta, ma in quel
momento non ci diedi peso. La dottoressa Germani mi guardava con
occhi sbarrati, chiaramente scontenta del mio operato.
Sopra la
barella, Lei.
Lei.
Piccola e fragile.
Non ero
riuscito a salvarla.
Non ero
riuscito a riportarla indietro.
.Neve
Restai in
sala d’attesa per ore a fare quello che si fa in una fottuta sala
d'attesa: attendere. Testa bassa, provando vergogna, fissando le mie
mani ricolme di sangue. Col pollice cercavo di scrostarne quanto più
possibile, inutilmente. Sentivo gli occhi del vecchio sulla destra
che mi fissavano, occhi curiosi, insieme alla sua voglia di sapere,
di domandare, e invece non si azzardò. Nemmeno una sillaba, e come
lui tutte le persone che mi circondavano se ne restavano a distanza.
Attorno a me sedie vuote.
“…Leo
”
Una voce
calma, ma sicura, si insinuò come una freccia nel mio cervello,
svegliandomi dal coma. La guardai, con gli occhi
spenti per pochi secondi, prima di tornare alle mie mani e al sangue.
L'impegno per toglierlo era diventato il doppio.
“Andiamo
Leo, ti accompagno al bagno”
Non disse
altro e mi prese sottobraccio, portandomi di peso al bagno degli
inservienti. Mi risvegliai quando vidi il mio riflesso davanti allo
specchio, notando Alice impegnata a lavare le mani con acqua e
sapone. Strofinava vigorosamente, ma non andava via nulla. La colpa
era entrata fino in profondità. E non c'era sapone che riuscisse a togliermi quella sensazione di dosso.
“Non è
stata colpa tua, hai fatto il possibile.” Disse, guardandomi di
sottecchi, riprendendo subito dopo a far scorrere l’acqua per
sciacquarmi le mani insaponate.
L’acqua
era gelida.
“Non
l’ho salvata”.
Mi
guardò, ora con più insistenza, abbracciandomi. Mi strinse forte,
sentivo l’odore dei suoi capelli sulla faccia, ma non ricambiai
l’abbraccio restando flaccido e apatico nella sua stretta. “Eri
li’ durante l’incidente, hai voluto intervenire. L’hai portata
qui, hai cercato di salvarla … quel camion ne ha uccisi sette su
nove. Era una bambina, era... troppo piccola. Non puoi fare miracoli.
Se così giovane…”
La spinsi
via, non avevo voglia di sentire altro. Più tardi avrebbe
sicuramente ripreso il discorso a casa, sotto le coperte, o magari
davanti alla televisione accesa che non guardava mai nessuno. Quindi
non c’era motivo di proseguire quella conversazione nei cessi
dell'ospedale. Attraversai il corridoio del San Raffaele, uscendo dal
reparto ustionati, per andare a recuperare il mio cappotto.
In meno
di dieci secondi ero fuori. Era Dicembre, nevicava, ed ero certo che
Lei avrebbe voluto vedere quel velo di bianco che copriva Milano.
Così
Natalizio, e rassicurante.
Gelido e
Freddo, come la morte.
.Zapping
Alice
tornò a casa presto, considerati i suoi soliti orari, trovandomi
seduto sul divano a fare zapping. In realtà non guardavo i
canali che stavo cambiando. Era più che altro un gesto che sembrava
placare il mio cervello in subbuglio.
Non disse
niente, si limitò a guardarmi per diverso tempo nel buio, mentre si sfilava
il cappotto. Si avvicinò, sedendosi a
cavalcioni su di me. La guardai, contrariato, cercando di spostarmela
di dosso.
“Non
sono dell’umore, Ali”.
“E io
non lo ero ieri, però non ricordo di avere fatto storie” Sorrise,
baciandomi l’orecchio un paio di volte, prima di morderlo. Fece
male, più male del solito, per questo mi ritrassi incontrando lo
schienale del divano “Dico sul serio.” Lei rise, ma non si degnò di darmi ascolto, continuando la sua
sceneggiata da donna vogliosa. Rimasi immobile, forse solo per farle
capire che non c’era proprio modo quella sera. “Leo, che palle!”
Esclamò allargando le braccia come se non capisse dove stesse il
problema “E’ il nostro lavoro, ricordi? Sei un Borsista, dovresti
sapere che la gente ci muore negli ospedali!”
“Oh, e
a quest'idea tu ti ci sei già abituata, uh?”
”Certo
che no!” Rispose brutalmente “Ma voglio comunque scopare!”
A quella
risposta alzai gli occhi al cielo “Quanta finezza, tesoro. Ora sì
che mi è salita la voglia.”
Quello la
fece andare su tutte le furie. Sbraitò per un po', sul come fossi incapace di affrontare la vita - o la morte in questo caso - e un sacco di altre cose che non credo c'entrassero poi molto col discorso. Ricordo ad un accenno alla lavatrice.
Poi la porta della camera sbatté.
E mi ritrovai solo.
Poi la porta della camera sbatté.
E mi ritrovai solo.
Solo con
la mia tv, libero di dar vita ad un nuovo e furioso zapping.
.A
Centottanta
Aspettai
l’alba per fare le valigie recuperando le poche cose che avevo a
casa sua. Tutto sommato me la cavai in dieci minuti scarsi, prendendo
tre paia di jeans, di cui due sporchi, e qualche camicia. Il
cappotto, le scarpe, ed ero già pronto a varcare la soglia della
porta. Alice nemmeno se ne accorse, troppo impegnata a sognare Brad
Pitt – o chi per lui – e russare. Per Dio, russava più di me.
Chiusi la porta alle mie spalle, avanzando per il corridoio. L’unico
vero problema fu caricare la valigia sulla moto, e dopo una paio di
tentativi, decisi di abbandonarla sul marciapiede “ E chi se ne
fotte “. Presi il casco – un omologato ultimo modello, nero e
giallo – e salii sulla mia kavasaki verde. Avevo speso tutto per
averla, e da quel momento l’avevo sempre tratta come una figlia.
Avviai il motore e mi allontanai per viale Padova, senza una meta
precisa.
Qualche
ora più tardi ero già fermo in un autogrill, a riscaldarmi le
chiappe e le mani, visto il gelo polare di Dicembre. Un caffè in un
bicchiere di cartone, una brioche plasticosa, una capatina al bagno
ed ero già pronto per ripartire.
Il
telefono squillò. Numero anonimo.
“Pronto?”
“Ti
sembra il caso di lasciare il lavoro proprio oggi?”
Sorrisi,
era Gennara della Reception del San Raffaele.
“Ciao
cara.”
“Non
fare il puttanone con me! La Germani ti cerca, hai saltato il primo
turno, sei impazzito?”
“Dille
che mi sto licenziando”
Seguì
qualche secondo di silenzio, interrotto da un respiro profondo di una
fumatrice incallita “Leo, per l’amor di Dio, non fare cazzate. E’
il tuo futuro”
Mi scappò
una risata, le dissi che il suo culo batteva tutti quelli delle zoccole ventenni che si aggiravano da noi, e riattaccai.
Non mi
sentii mai più così libero come quella mattina.
Con il
sole alle spalle, e l’aria sul collo, percorrevo l'A1
a centottanta.